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Lontano in fondo agli occhi
di Giuseppe Rocca
 

Regia di Giuseppe Rocca
Scenografia di Paolo Petti
Interpreti: Andrea Refuto, Milena Vukotic, Mariagrazia Galasso, Giusi Saija, Nuccia Fumo, Olimpia Di Maio, Antonella Stefanucci, Riccardo Zinna, Maria Izzo, Marina Confalone

Premi:
La Biennale di Venezia 2000: Settimana della Critica
Buenos Aires International Festival of Independent Cinema 2002: Muestra de Cine Napolitano
Fantasporto: Oporto International Film Festival 2002: Prémière & Panorama
Woodstock Film Festival 2001: The Haskell Wexler Award, per il miglior direttore

La critica
"Il mondo di ieri" di Goffredo Fofi

Il premio Solinas è servito al cinema italiano ufficiale per individuare setacciare condizionare i nuovi talenti, facendoli rientrare nell’ordine dei canoni e delle regole, dentro la grande famiglia istituzionale del cinema, che è per definizione romana e di sinistra? Quest’opinione è attendibile, ma la trasandatezza del nostro sistema permette di tutto, e una grande parte è riservata al caso, nelle carriere dei nostri giovani registi o sceneggiatori che vogliono realizzare direttamente le proprie sceneggiature.
Il caso di Giuseppe Rocca è impressionante: passano anni dalla sceneggiatura premiata al film montato; e il rischio è che lungo la strada le idee invecchino, le energie e l’invenzione si sfibrino. Per fortuna, Giuseppe Rocca è riuscito a portare a termine il suo primo film, a realizzare la sua premiata sceneggiatura ostinandosi e intestardendosi, come quegli asini e quei muli che potrebbero attraversare la scena di Lontano in fondo agli occhi se ce ne fossero ancora, nel Sud di oggi. Lo ha potuto fare con un produttore intelligente e una équipe “leggera” e però, paradossalmente, riuscendo a fare il migliore tra i film italiani “in costume”, “al passato”, che si vedono da anni, con la grande eccezione di Gianni Amelio e Giuseppe Gaudino.
È più facile, ormai, fare film d’ambiente romano-antico che sugli anni Cinquanta e Settanta... La mutazione dell’Italia è stata sia antropologica che ambientale e il Paese e i suoi abitanti di oggi hanno poco a che fare con il Paese e gli abitanti di appena ieri anche quando si tratti delle stesse persone e delle stesse strade. Rocca ha dunque scelto pochi luoghi – una casa un convento una piazzetta... – e ha vinto la terza scommessa (la prima: fare il film; la seconda: farlo alle sue condizioni): rendere credibile il suo passato. Perché non c’è dubbio che il passato di Bambino sia anche il suo passato o il mio passato, il passato di generazioni oggi più che adulte, cresciute nell’Italia della scarsità e tradite in tante loro speranze perché hanno accettato con entusiasmo il futuro che il potere offriva loro: di consumo di conformismo di supina accettazione di un benessere variamente distruttivo. Bambino cresce nel presepe angusto e totale di un paese-grotta, di un paese-mamma dove il padre è assente, è altrove, e la sua assenza è una continua minaccia di disastri. Ma esprime la naturale rivalità del figlio e del padre, se è vero che ogni rapporto figlio-padre non può che ricalcare – almeno finché i mutanti non avranno risolto il problema all’origine – quello di Edipo con Laio. E con Giocasta. Le figure sostitutive del padre nel grande grembo di una casa tutta di donne sono lo zio prete, di per sé inoffensivo, non-padre, che ha rifiutato la generazione biologica, e Carmine, il piccolo e losco “malamente” di cui è innamorata la servetta Rafilina, prediletta del nostro Bambino. Se lo zio prete non serve, il sacro interviene nella figura di suor Agnella, monaca e, in quanto erborista (che vuol dire guarire i mali fisici dell’uomo e non solo quelli morali che preannunciano l’Apocalisse), anche a suo modo “strega”.
È un suo veleno a permettere a Bambino di far fuori – se non è una proiezione o un sogno – il rivale Carmine, consegnandolo a un futuro che non viene detto, ma che sarà certamente di ambigui rimorsi, di duraturi sensi di colpa, di desideri ancora una volta deviati. Attorno a Bambino, figura carica già nel nome di troppa responsabilità per l’impellenza in Rocca di dire nell’essenziale il massimo, tipica delle opere prime di vera ambizione, e con il rischio di qualche eccesso di simbologia e poesia, è l’eterna recita di un’infanzia desiderata e frustrata nel suo desiderio che viene qui rappresentata, di un abbandono dell’Eden per coscienza del peccato e della colpa, di un’assunzione della colpa e cioè del limite che è d’ogni uomo. Forse il risultato più bello di questo film non è nel dirci cose che il nostro cinema trascura e tende a rimuovere e la nostra cultura a complicare oltre il lecito, riportandole a una misura concreta e comunicante.
Forse il risultato più bello è di aver saputo ricreare con poco, e con l’aiuto di un paese che è Sant’Agata dei Goti nel beneventano, e con un piccolo gruppo di collaboratori appassionati (il direttore della fotografia Grambene, il musicista Scialò, lo scenografo Petti, la costumista Del Guerra, e naturalmente gli attori, non solo tra gli esordienti Refuto/Bambino e Galasso/Rafilina ma il bel coro di donne mamme nonne suore Salja Fumo Di Maio Stefanucci Izzo Confalone - spesso veterane della scena napoletana e “figlie d’arte”), un piccolo mondo di ieri che abbiamo creduto di poter seppellire impunemente. Anche nei nostri ricordi, nel nostro sangue e nella nostra psiche.